19 dicembre 2011

L'Italia sulla torre

Lo striscione sulla torre occupata
Orientarsi nella Stazione Centrale è praticamente impossibile. Trovata la giusta via, mi incammino sul binario 21. Da questo binario, durante il Ventennio, partivano i treni diretti ad Auschwitz. Ancora una volta questo binario porta verso una realtà non troppo felice.
Tra i tanti negozi e le bancarelle è immediatamente riconoscibile un ufficio sindacale, occupato per protesta, sulla cui parete è appeso uno striscione che recita "Siamo tutti sulla torre!". Raccolgono firme e distribuiscono ai passanti dei comunicati scritti dopo alcune assemblee interne.
Continuando a camminare lungo il binario si arriva in una zona più cupa e triste, la zona nella quale termina la stazione e inizia un ammasso confuso di binari e di strutture ferroviarie sempre più vecchie. Ad una distanza di circa cinquanta metri si trova la torre del faro. "Italia, sei più divisa senza i treni notte. 800 licenziati". Questa è la frase scritta sullo striscione appeso alla torre da tre operai della società Servirail Italia-Newrest-Wagons Lits, che la occupano per protesta contro il licenziamento di 485 lavoratori (800 in tutta Italia) nel settore dei treni notte. Questo genere di treni è fondamentale nel collegamento di nord e sud del paese, in quanto l'alta velocità, che è stata tanto sbandierata come sinonimo di modernità, si ferma a Roma e non si inoltra negli abissi dell'Italia meridionale.
"Il nostro settore è in profonda crisi" si legge in un comunicato dei lavoratori "non per mancanza di viaggiatori, che l'anno scorso sono stati oltre due milioni, ma per scelte strategiche da parte del committente Trenitalia". Senza alcuna motivazione, senza alcuna tutela per il lavoratore licenziato, questa è la variante italiana dei cosiddetti licenziamenti facili (introdotti in Italia con l'ultima manovra finanziaria approvata prima della caduta del Governo Berlusconi e già presenti nella lettera all'UE), che invece in Europa sono sinonimo di assistenza. In Danimarca un lavoratore licenziato riceve un assegno per quattro anni del valore compreso tra il 70% e il 90% della retribuzione, mentre i job center emettono sempre nuove proposte di lavoro. Sono pochissimi i lavoratori che alla fine di questi quattro anni non hanno un lavoro. Nell'Italia della precarietà parole come “assistenza”, “sicurezza”, “stabilità” appartengono ad un lessico sconosciuto.
Un elicottero sorvola la stazione, alcuni agenti di polizia stanno vicino al presidio, pronti a bloccare ogni ulteriore tentativo di salire sulla torre, mentre molti operai vanno e vengono portando panettoni, torte, bottiglie di vino: tutto ciò che possa costituire un gesto di solidarietà per la lotta.
Il freddo invernale non placa la rabbia di questi uomini, che, incuranti dei rischi e della pericolosità del loro gesto, continuano a opporsi al loro licenziamento. Già da alcuni mesi a questa parte si sentiva un clima meno rassicurante, che andava peggiorando di giorno in giorno fino all'11 di dicembre, quando gli operai di diverse ditte appaltatrici del settore hanno ricevuto a casa la tanto temuta lettera di licenziamento. Allora hanno comunemente deciso, di fronte all'impotenza della rappresentanza sindacale interna e al comune disinteresse della politica e dei vertici dei sindacati, di opporre una decisa resistenza.
Il 10 dicembre tre operai, Oliviero, Carmine e Giuseppe, hanno dato inizio all'occupazione della torre. In seguito a questo gesto è stato occupato anche l'ufficio sindacale ed è sorto spontaneamente un presidio permanente di operai. Uno dei tre occupanti fa scendere giù dalla torre una corda alla cui estremità è legato un cestino. Gli altri uomini che stanno sotto lo afferrano, lo riempiono con fette di panettone e lasciano che possa essere tirato nuovamente sopra. Sopra la torre la vita è insopportabile. Lo spazio disponibile raggiunge a stento i due metri quadrati. Passano il giorno al primo piano, mentre sul secondo piano, dove è stata allestita una tenda rossa, passano la notte. Al presidio gli operai stanno attorno al fuoco, fumano e avvolti nei loro giacconi di Treni Notte, cercano di confortarsi a vicenda.
Tra i tanti operai c'è un signore di 44 anni, padre di due ragazzi, che ha lavorato per 25 anni in questa azienda, anche lui tra gli ottocento licenziati. Gli italiani hanno un'idea quasi ossessiva di sicurezza e di stabilità: la maggior parte dei ragazzi cerca un lavoro con la volontà costante di fare famiglia, comprare una casa, un auto e vivere così per il resto della loro vita. Questo signore ormai di mezza età era uno di questi ragazzi. Una vita passata a creare sicurezze, a garantire un futuro ai suoi figli e poi, in pochi mesi, il frutto di una vita di lavoro e di sacrifici viene spazzato via da una scelta errata, che, paradossalmente, non era neanche la sua. Le sue parole escono lente e dure. Cerco di limitare i momenti di silenzio, che si fanno sempre più frequenti. La realtà è questa, non c'è via di fuga. Gli operai sono sempre l'ultima classe, un ceto di uomini senza volto e senza storia, considerati solo per la manodopera che mettono a disposizione e non per la loro individualità. Sono loro, gli operai, una massa di schiavi fustigati per far andare avanti un sistema ingiusto, che nasce dallo sfruttamento, che progredisce grazie allo sfruttamento. Gli chiedo cosa prova, alla luce degli ultimi avvenimenti, quando pensa ai suoi figli. La tranquillità con cui aveva risposto alle mie domande viene meno e ripete diverse volte "è un ingiustizia", poi il silenzio. Inesorabile.

Matteo Piras

Nessun commento:

Posta un commento

Condividi questo articolo!